Io no che non mi annoio..

Cinque gradi sopra lo zero, buio totale.

In equilibrio precarissimo sulle tegole viscide e scivolose del mio tetto, fradicio dalla testa ai piedi, stringendo alla rinfusa tra le mani un’imbizzarrita canna dell’acqua che all'impazzata spruzza verso il cielo nero, mi scopro qui, a svariati metri da terra, a rifletter su quanto sia strana la vita.

La mia, per lo meno. Tira un vento gelido della malora, per giunta.

E tutto quel che sto facendo in questo dannato momento è sconsigliato e pericoloso. Assolutamente pericoloso.

Il fatto è che l'ultimo carico di legna che mi hanno portato un mese fa era così umido e bagnato che non solo ho dato di testa, ogni mattina, per accendere il camino.

Non solo, una volta acceso, non scaldava una mazza. Ma, ancor più grave, quella fuliggine appiccicosa mi ha letteralmente asfaltato di schifezze le pareti della canna fumaria.

Che è assolutamente a norma, per carità; con tanto di tubo d'acciaio.

Ma - a dir dei pompieri - ancor più pericoloso del muro nudo e crudo. “Perché l'acciaio, signor Ratto, scalda tremendamente. E, a certe condizioni, cuoce tutto ciò che si trova intorno. Un po' come è accaduto a lei!”

I pompieri, sì. Perché dopo settimane di fiammelle da cimitero, improvvisamente nel pomeriggio il camino ha cominciato a far sul serio.

Fin troppo, a dire il vero. Finalmente scalda!, ci siamo detti.

Ma insieme al calore, in tutta la casa, si è rapidamente diffuso uno strano odor di fuso.

E mia moglie, uscita di corsa per dare un'occhiata al camino, è rientrata con le mani nei capelli.

“Il comignolo ha preso fuoco! Si vedono le fiamme uscire..!”

Io ho cominciato a prenderla con calma.

Non preoccuparti, sarà un po' di fuliggine dentro il tubo, le ho detto.

Ora, vedrai: brucerà tutta in un attimo e finirà lì.. Ma niente: non finiva un accidente, altroché.

Nel frattempo si era anche fatto buio e il mio comignolo, di smettere, proprio non ne voleva sapere. E continuava, allegramente, a sputar fuori allegri e incandescenti lapilli.

Poi la questione è peggiorata. Decisamente peggiorata! E quel cavolo di campanile in miniatura ha cominciato a proiettar lunghe fiammate orizzontali, indirizzandole su tegole e travi di legno.

Mia moglie era ormai piegata in due dal terrore e anch'io ho cominciato a perdere tutto il mio buon umore.

Ripensandoci, è stato un autentico miracolo.

Sì, perché va detto. Soltanto un paio di giorni prima io avevo notato di aver lasciato all'aperto, per tutto l'inverno, la pistola che nella bella stagione utilizzo per innaffiare il prato.

È un aggeggio di plastica, che si attacca al tubo di gomma.

Ma che, se rimane fuori pieno d'acqua, nei mesi più freddi gela.

E quando provi a riutilizzarlo in primavera, ti si spacca in mano. Ecco.

Non serviva a nulla farlo in quel momento, proprio a nulla. Ma - chissà poi perché - due giorni fa avevo deciso di portarlo in casa e lasciarlo a bagno, in un catino d'acqua calda, per una notte intera.

L'indomani la pistola era pronta per l'uso. L'avevo messa ad asciugare e poi rimontata alla canna arrotolata all'aperto, vicino al cancello.

Ecco perché è stato un miracolo. Perché quando la situazione ormai sembrava incontrollabile, io mi sono lanciato su quel tubo flessibile. L'ho srotolato alla velocità della luce, sono salito sul tetto semi-gelato rischiando di rompermi l'osso del collo, e ho preso a spruzzar acqua, proprio con quella pistola, direttamente dentro la canna fumaria. Nel frattempo mia moglie ha chiamato i vigili del fuoco.

Ma siccome non riuscivano a trovare la mia casa (da non crederci: i pompieri, se vado a fuoco, non mi trovano!), dalla sua telefonata al loro arrivo sono passati tre quarti d'ora.

E quando son finalmente riusciti a raggiungerci, il qui presente ratto aveva già spento l'incendio da solo. Da circa mezzora.

Seduto qui, adesso, ripenso a quella pistola.

Se fosse stata congelata come l'avevo trovata qualche giorno prima, io adesso non avrei più il tetto. Forse nemmeno la casa.

"Ma capitano tutte a te!", mi ha detto recentemente qualcuno, forse sospettando perfino che io, nelle mie concitate narrazioni, esageri alquanto.

E invece no: non esagero, cazzo! La mia vita, a tratti, prende di colpo delle impennate incredibili, che sembra di finir catapultati in un film dell'orrore.

Succede al sottoscritto, sì. Ma anche ai poverini che - volenti o nolenti - si trovano a condividere le mie avventure. Famiglia in primis.

Non basta ancora? No, temo di no! E infatti, mica è finito lì il mio incredibile avvio di primavera.

Ieri pomeriggio. Primo aprile, Pasqua. Poco più di una settimana dalla "Serata di fuoco".

Eccoci qui, tutti sereni, a pranzo da mia sorella. Finito di mangiare che si fa? Che facciamo? Una passeggiatina al fiume? Massì, dai, ché così digeriamo un po'! Cosa c'è di meglio, di più rasserenante, di una bella passeggiatina pasquale in riva al fiume?

Eccoci dunque tutti lì. Molti altri umani, però, purtroppo sembrano aver avuto la stessa idea.

E niente da fare: non si trova parcheggio. Dunque, lasciamo le auto più indietro. E seguiamo il nipote, appassionato studente di Scienze naturali, che ci guida su sentieri inesplorati, alla larga dai mille turisti della domenica.

Il posto è selvaggio, a tratti incontaminato. Giungiamo sulle rive del fiume in un punto semideserto.

Occhio gente: ci sono ampie distese argillose in cui si affonda di niente.

Camminate il più possibile sulle pietre! La mia bimba di otto anni, però, dà di testa non appena sente il suo cuginone alludere ai numerosi fossili che si possono trovare in quelle zone.

Impazzisce, si. Perché, si sa: lei da grande sarà paleontologa, e caccerà dinosauri. Quindi, basta.

Lei non sente più niente e nessuno. Si allontana e si precipita su quella specie di limo. Dopo qualche secondo, l'urlo.

Il fango l'ha letteralmente inghiottita. Fino alle ginocchia!

Io non me ne accorgo subito, rapito come sono a inspirare quel vento impetuoso che serpeggia tra le insenature del fiume.

Mi inebrio spesso, sempre più spesso, di quello che potremmo definir “l'Adesso”. Arresto il pensiero e osservo, ascolto, annuso l'aria. Tutto lì. Vivo il “momento”, ecco. Isolandomi dal tempo.

Così, nel frattempo, gli eventi precipitano. Precipitano senza di me.

E quando ritorno ad affacciarmi al mondo, nel fango ci sono finiti già in tre.

Mia figlia è stata appena salvata dalla cugina, che però ora è imprigionata fino ai polpacci. E a cercar di tirarla fuori si è precipitata mia moglie, che ora è impantanata fino alle ginocchia. E urla, chiedendo aiuto.

Quindi corro in soccorso. E un secondo prima di venir inghiottito io, con uno sforzo tremendo riesco a tirar via lei.

Ma il fango, nel frattempo, si è mangiato due scarpe. Una della nipote, appena riemersa, e una della moglie.

Immergo nella gelida melma una mano, spingendola giù fino al gomito nel punto indicato, e riesco a strappar via la scarpa coniugale, o quel che ne resta, trovandomi tra le dita un lungo salsicciotto di fango.

Ma i miei piedi (che, vantando uno sfacciato 46, riescono a stare a galla un po' più a lungo di quelli degli altri) stanno ormai affondando. Quindi, in extremis, mi slancio fuori dal limo.

Poi mi volto. Mia nipote è ferma li, affranta: la sua scarpa è letteralmente perduta. Allora ci riprovo.

Mi butto ancora nelle sabbie mobili per provare a recuperare anche quella. Ma in un baleno comincio a sprofondare.

Mi tiro fuori con un colpo di reni che so (lo so bene!), mi costerà settimane di mal di schiena, ma rovino bocconi, lungo disteso nel fango.

La scarpa della nipotina è perduta per sempre.

L'ennesimo fossile destinato ad attraversare i millenni.

Mi rialzo il più velocemente possibile, assolutamente inviperito. Poi ci guardiamo in silenzio, increduli e sconvolti. Tutti e quattro avvolti nel fango.

I piedi pesano un quintale, e mentre facciamo sconsolatamente ritorno alle automobili, la gente che ci incontra ci guarda inorridita.

Quattro reduci da chissà quale indiavolata alluvione si aggirano come zombie per le strade di una tranquilla domenica di Pasqua, sulle rive di un apparentemente placido fiume.

Le scarpe? Due pesantissime zolle informi. Pantaloni di fango, felpa di fango, orologio di fango, polsino di fango. Fango negli occhi, nel naso, tra i denti.

Quattro figure marroni, marroni dalla testa ai piedi, si trascinano allibite, senza nemmeno più la forza di cristonare.

Un miracolo? Probabilmente sì, anche questo. Mentre torniamo, infatti, ci chiediamo che fine avrebbe fatto uno di noi, se si fosse trovato lì da solo.

Come ne sarebbe uscito? Chi lo avrebbe aiutato? Ce lo chiediamo, sì.

Ma non riusciamo proprio a dircelo, a parlarne. A lamentarci del fatto che nessuno abbia pensato a transennare la zona, cazzo! O a bonificarla! No, non ci riusciamo. Perché le poche energie residue, ora, vanno spese per raggiunger quella dannata macchina, sparirci dentro e fiondarsi a casa, letteralmente distrutti.

Ecco. La mia vita è così. Riesce a trasformarsi in un attimo in un romanzo ambientato, che so, in una giungla.

O in una foresta in fiamme, o in qualcos'altro di pazzesco.

È sempre andata cosi, sempre! Roba da non riuscire a farsi credere, quando ti tocca raccontarla.

E quel che più mi affligge è che questa strana, inenarrabile follia se la debbano sorbire anche tutti gli altri.

Tutti quelli che hanno avuto la sventura di condividere con me questo pazzo, incredibile giro di danza che son solito ballare, più o meno, dal giorno stesso in cui sono venuto al mondo.

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