La domanda da porsi

Ci sono interrogativi ai quali, qualche volta, si deve pur provare a rispondere. Tanto per non fermarsi sempre e solo alle ricette servite già pronte dalla granitica informazione di sistema. E quando la sera monta l'angoscia, quando si sente forte quel faticoso peso che un'emergenza sanitaria senza fine, o che la prospettiva di una nuova guerra mondiale, arrecano al cuore, beh: ancor più, in quei momenti, qualche domanda può servire a guidar la riflessione. E a stemperare un poco il senso di impotenza che attanaglia tutti noi.
Perché l'Ucraina? Perché adesso? Perché un uomo come Putin espone il mondo al rischio di una guerra globale? E come mai, soprattutto, in risposta ai suoi bombardamenti, un'organizzazione di parte, un'alleanza militare come la NATO, dovrebbe accorrere in difesa di uno Stato che, di quella stessa organizzazione non fa ancora parte?
Il 12 dicembre 2017 il National Security Archive della George Washington University pubblicava i documenti relativi a una serie di garanzie offerte dal Segretario di Stato USA James Baker al Presidente russo Gorbacev, durante la Conferenza di Ottawa Open Skies svoltasi nel febbraio del 1990. All'interno di quei documenti finalmente desecretati compariva un riferimento al cosiddetto “Not one inch eastward”, la rassicurazione avanzata dagli USA il giorno 9 di quello stesso freddo mese, in virtù della quale gli americani si impegnavano ad arrestare il loro cammino di annessioni NATO verso Est, in cambio del riconoscimento della riunificazione di una Germania interamente inglobata nella suddetta Alleanza nord-atlantica.
Le parole esatte di Baker, pronunciate nel corso di quella Conferenza al ministro degli esteri russo Shevardnadze e annotate in quel documento, erano queste: "if U[nited] G[ermany] stays in NATO, we should take care about non-expansion of its jurisdiction to the east."
Peccato però che, da quel momento in poi, gli USA avessero provveduto scrupolosamente a tradir, passo dopo passo, quelle loro mendaci rassicurazioni. Dopo soli sette anni, nel 1997, venivano infatti invitate ad aderire alla NATO Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia. Cinque anni dopo, lo stesso invito veniva rivolto a un'altra affollata cordata di nazioni ex URSS: Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Bulgaria, Slovenia e Romania. Tutte finite, da lì a poco, nella rete dell'Alleanza filo-statunitense in cambio dei soliti, allettanti, sostegni finanziari. Nel 2009 era la volta di Albania e Croazia. E nel 2017 completava il suo ingresso nella NATO anche il Montenegro. Ultima, in ordine di tempo, la Macedonia del Nord, entrata a far parte dell'impero americano nel 2020.
Quanto all'Ucraina, forti pressioni statunitensi spingono da quasi due decenni in questa stessa direzione. La Rivoluzione arancione e la conseguente salita al potere del politico filoamericano Juščenko, avvenute nel 2004, hanno costituito una svolta formidabile in questo senso. E quel fatidico 2014, l'anno della “annessione” della Crimea da parte di Putin e delle forti pulsioni autonomistiche filorusse della regione ucraina del Donbass - culminate nella proclamazione dell'indipendenza da parte delle Repubbliche popolari di Doneck (di fatto la regione più ricca dell'Ucraina) e di Lugansk (entrambe caratterizzate da una forte simpatia nei confronti di Mosca) - non ha che amplificato a dismisura le tensioni tra le due nazioni. Per non parlar delle conseguenti spedizioni punitive militari sancite da Kiev e finalizzate a contrastare - con misure che zar Vladimir non esita a descriver come veri e propri massacri - queste proclamazioni di indipendenza per altro sancite da plebisciti popolari e prontamente riconosciute da Mosca.
A tutto ciò si sommi la questione del gas. Che da anni e anni vede Ucraina e Russia scontrarsi sull’aumento delle tariffe imposto da Mosca all'indomani della salita al potere di Juščenko. E che si riverbera nella recentissima querelle del raddoppio del gigantesco Gasdotto Nord Stream, di proprietà del colosso statale russo Gazprom, a dir dello stesso Putin pronto a inondar di combustibile un'Europa che invece lo snobba, sottomessa com'è a Washington, al punto da preferire una crisi energetica senza precedenti e un aumento vertiginoso delle bollette relative alle utenze di tutta Eurolandia, piuttosto che comprar la merce dello zar. L'ennesima ingerenza made in USA nelle nostre vite, dopo tutto, che in questi giorni ha portato, per esempio in Italia, alla proclamazione dello stato di preallerta da parte di SNAM (la Società Nazionale Metanodotti) che dal 27 febbraio ha preso a metter le mani avanti rispetto a un'eventuale carenza di metano nell’intera penisola, e all'altrettanto preoccupante prolungamento, da parte del Governo di Roma, di uno Stato di Emergenza originariamente indetto per far fronte alla pandemia e adesso, inspiegabilmente, prorogato in nome dei bombardamenti russi. Così: come se l'obbligo di vaccino e la discriminazione, in palese violazione dei diritti costituzionali di un popolo, introdotta dal cosiddetto Green Pass avessero qualcosa a che fare con le tensioni tra Russia e Ucraina.
Alla luce di questo, alla luce di tutto ciò, la domanda da porsi non può, a mio parere, che esser questa. Al di là di quanto sia grave una decisione così densa di conseguenze come quella di Putin, al di là della gravità di un atto come quello, da lui disposto, di bombardare un Paese sovrano, al di là di tutto questo, dicevo, un Presidente di una nazione che, da decenni, si vede assediata dalla crescente minaccia di una gigantesca alleanza militare straniera e nemica, e che si trova costretta, giorno dopo giorno, a viver l'eventualità sempre più certa di trovarsi i missili e i carri armati americani puntati addosso sulla propria linea di confine, sinceramente che alternative aveva?

Pietro Ratto, 1° marzo 2022, BoscoCeduo.it

- Immagine a inizio pagina: estratto del resoconto relativo alla conversazione svoltasi a Mosca tra Baker e Shevardnadze il 9 febbraio 1990.
- Immagine di copertina tratta da sivaramaswami.com

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